Eugenio Baroni - Taranto 1880 - Genova 1935

Eugenio Baroni - I mutilati
I mutilati
Eugenio Baroni nacque a Taranto da genitori lombardi.
Scorre nelle sue vene il buon sangue della Lomellina, ma a Genova ebbe la sua casa e si forma il suo carattere di uomo e di artista.
La sua prima educazione famigliare fu penetrata da un acceso fervore patriottico e dalle narrazioni epiche del Risorgimento d'Italia.
Suo padre era un vivente testimone del periodo eroico delle guerre e dei martiri che avevano conquistata l'unità e la libertà della patria.
A 19 anni, condannato in Venezia alla fucilazione, per aver tentato di far saltare la santabarbara dalla corazzata austriaca su cui era imbarcato, era stato graziato e rinchiuso nei «Piombi» per intercessione dell'Arciduca Massimiliano commosso dalla sua esaltata adolescenza e ammirato della sua maschia bellezza.
Le radici dell'opera di Eugenio Baroni vanno ricercate in questa vivente tradizione.
L'arte di questo giovine e potente scultore si collega infatti nelle sue espressioni fondamentali alle due epopee di liberazione, e sembra che il suo destino sia di esser «l'aedo in pietra della risorta potenza italica».
La vera dichiarazione di guerra fu lanciata al mondo da un Poeta in quella Sagra di Quarto in cui il Monumento dei Mille del Baroni era quasi l'ara.
Ideato nel silenzio claustrale di Via Marassi e giudicato nel 1910 da altissimi artisti quali il Monteverde, il Bistolfi, il Trentacoste e il Sartorio, degno di sorgere sullo scoglio fatale; esso fu inaugurato in quel 5 maggio 1915 e parve nella luce della grande vigilia una geniale rievocazione in bronzo dell'epopea garibaldina.
In esso erano già fissati i caratteri originali dell'artista, rivelate le sue possibilità di esprimere nelle forme e modi propri della scultura, la leggenda e la poesia degli avvenimenti storici; di trattare le masse dei corni umani nell'orrore della morte e nella trasfigurazione della vita, così da meritargli il giudizio di D'Annunzio «egli ha ereditato la terribilità di Michelangelo».
Ma oggi, a distanza d'anni e di eventi, il nostro giudizio più sobrio, considera il Monumento dei Mille come una tappa su l'aspro cammino ascendente di Eugenio Baroni.
Il lungo periodo della guerra a cui egli volontariamente e valorosamente partecipò, il contatto con la realtà eroica quotidiana e con le folle combattenti, dovevano spogliare la sua arte da ogni decoratività vana, dalle abilità, e da una certa esuberanza che potè sembrare «barocca», affinché egli potesse accingersi con l'anima nuda e con forze fresche a quello che vuole essere ormai tutta la sua ragione di vivere il Monumento al Fante.
La Sala Baroni ne aduna il progetto e alcuni suoi sviluppi particolari - più qualche opera minore.
E Quello stesso Monumento che già apparve e fu discusso dal pubblico nel suo primo abbozzo.
Esso ha attraversato molte prove per giungere a questa sua espressione definitiva
Lo stesso artista affermava di averne dovuto mostrare al pubblico un embrione e che gli occorrevano anni di meditazione e di lavoro per svilupparlo.
Però anche il primo bozzetto suscitò consensi entusiastici e non meno invidiabili contrasti e indimenticate polemiche, che per un artista, sono il segno sicuro della vitalità della sua opera.
Scrisse Leonardo Bistolfi che quest'opera «è la sola degna dell'amore per cui è nata».
E se è vero - come disse Ugo Ojetti - che gli stranieri sono un po' il giudizio dei posteri ecco come ne giudicò il grande pittore inglese Frank Brangwyn: «Se l'opera sarà compiuta sarà uno dei più degni e nobili monumenti del mondo e di tutte le età».
Oggi tuttavia il progetto giunto alla sua espressione perfetta deve molto anche ai suoi stessi oppositori che hanno obbligato il Baroni a una lunga e silenziosa comunione con la sua opera.
Gli fu utile allontanarsi dai ricordi troppo immediati e perciò crudi della guerra. L'arte ha bisogno di lontananze.
Realtà e sogno si sono fusi ormai in questo monumento della nostra ultima epopea, come nel ricordo di ogni combattente, e pare che l'autore vi abbia toccato il segno del suo maschio, taciturno eroismo di soldato e di artista.
L'originalità dell'opera sta nella semplicità del mezzi con cui la folla, perché il monumento è destinato alle folle dei pellegrini dei luoghi santi della guerra - è condotta a riviverla tutta nella sua austerità e religiosità.
Qui lo stile non consente nè imitazioni, nè declamazioni, perché nasce dalla necessità e dalla natura stessa del luogo, uno dei colli gloriosamente contesi del Carso.
La trincea e il camminamento, stilizzati e resi monumentali, affiorando dalla terra dei vivi e dei morti, formano intersecandosi senza artifizio, il segno dell'augusta religione dei padri.
A questa architettura essenziale, tratta dalle costruzioni militari che il Fante ha glorificato, corrisponde l'ispirazione dei gruppi bronzei che vogliono rammentare lungo l'ascesa, di stazione in stazione, i caratteri più nostri, più veramente umani e italiani del Soldato che sale per il camminamento verso la vetta e verso la Vittoria.
Queste statue nulla più hanno di accidentale, ma sembrano quasi espressioni di forze primitive, tanto elementari ne sono i caratteri.
Siamo di fronte agli stessi eroi dello Scoglio di Quarto; ma contemplati nella realtà, essi si sono precisati e ingigantiti.
Ogni figura è stata rivissuta con la passione dei ricordi fino agli umili indumenti, fino alle scarpe che da buon «scarpone» il Baroni sa che fan parte del solido profilo di un combattente e fino alla mantellina che dà al partente nell'Appello una solennità classica e diventa quasi ala nell'ultimo assalto.
Nessun dettaglio è parso indegno dell'arte e dell'amore in questo poema del Fante.
Poema che si apre con la benedizione della madre; che ha accenti di santità, di violenza e di amore, specialmente nel gruppo dei Mutilati, in cui è tutta la guerra, ma che ha il suo centro corrusco nella Vittoria della vetta.
E la vittoria veramente è già nella fede semplice e immobile di quell'umile donna con le mani levate, nel gesto ieratico della genitrice che rappresenta la terra, la casa, la patria, e che spinge su tutto il dramma fino alla trasfigurazione dell'Italia vittoriosa.
Sopra blocchi di blindamento essa ci appare trasumanata quasi in un arcangelo partecipe nell'ira trionfante a un ultimo assalto, sollevata in un gesto di furia eroica per gettare l'ultima pietra dal monte conteso, contro il nemico.
Intorno a lei sono gli stessi fanti che ci hanno accompagnato su per il Calvario, ma trasfigurati anch'essi dalla passione che dà loro i caratteri della bellezza e della immortalità degli eroi.
Come nel monumento dei Mille anche qui i morti risorgono per combattere ancora, ma gli imprecisi limiti tra la vita e la morte sono in quest'opera finale più indefiniti e insieme più vera.
Mentre ai due lati, nel gradino più basso, giacciono due gruppi di combattenti caduti, in uno dei quali è espressa mirabilmente la fraternità d'armi e la cessazione dello sforzo, la massa centrale della fanteria, lanciata all'assalto diventa quasi irreale a mano a mano che si avvicina alla Vittoria e sembra alzarsi con essa, svuotata di carne, dalla terra verso la luce.
Tutti i caratteri dell'arte del Baroni e tutte le sue promesse per il domani sono in questo progetto di un'opera che sarà la più alta esaltazione dell'Esercito combattente.
E ben fece il Capo del Governo ad acquistare il bozzetto perché fosse posto in Palazzo Venezia.
Noi però lo dobbiamo pensare non in gesso, ma in pietra ed in bronzo, nelle proporzioni in cui il suo autore lo ideò, sopra una grigia altura del Carso, con la sua ultima stazione ammonitrice - la Vedetta - rivolta verso l'Adriatico in vista, con la Vittoria profilata contro le bianche nuvole d'oriente, tra i due silenzi infiniti del cielo e dei morti, allineati in «ordine chiuso».

 TOMMASO GALLARATI SCOTTI