I mutilati |
Scorre nelle sue vene il buon sangue della Lomellina, ma a Genova
ebbe la sua casa e si forma il suo carattere di uomo e di artista.
La sua prima educazione famigliare fu penetrata da un acceso fervore
patriottico e dalle narrazioni epiche del Risorgimento d'Italia.
Suo padre era un vivente testimone del periodo eroico delle guerre e
dei martiri che avevano conquistata l'unità e la libertà della
patria.
A 19 anni, condannato in Venezia alla fucilazione, per aver tentato
di far saltare la santabarbara dalla corazzata austriaca su cui era
imbarcato, era stato graziato e rinchiuso nei «Piombi» per
intercessione dell'Arciduca Massimiliano commosso dalla sua esaltata
adolescenza e ammirato della sua maschia bellezza.
Le radici dell'opera di Eugenio Baroni vanno ricercate in questa
vivente tradizione.
L'arte di questo giovine e potente scultore si collega infatti nelle
sue espressioni fondamentali alle due epopee di liberazione, e sembra
che il suo destino sia di esser «l'aedo in pietra della risorta
potenza italica».
La vera dichiarazione di guerra fu lanciata al mondo da un Poeta in
quella Sagra di Quarto in cui il Monumento dei Mille del
Baroni era quasi l'ara.
Ideato nel silenzio claustrale di Via Marassi e giudicato nel 1910 da
altissimi artisti quali il Monteverde, il Bistolfi, il Trentacoste e
il Sartorio, degno di sorgere sullo scoglio fatale; esso fu
inaugurato in quel 5 maggio 1915 e parve nella luce della grande
vigilia una geniale rievocazione in bronzo dell'epopea garibaldina.
In esso erano già fissati i caratteri originali dell'artista,
rivelate le sue possibilità di esprimere nelle forme e modi propri
della scultura, la leggenda e la poesia degli avvenimenti storici; di
trattare le masse dei corni umani nell'orrore della morte e nella
trasfigurazione della vita, così da meritargli il giudizio di
D'Annunzio «egli ha ereditato la terribilità di Michelangelo».
Ma oggi, a distanza d'anni e di eventi, il nostro giudizio più
sobrio, considera il Monumento dei Mille come una tappa su l'aspro
cammino ascendente di Eugenio Baroni.
Il lungo periodo della guerra a cui egli volontariamente e
valorosamente partecipò, il contatto con la realtà eroica
quotidiana e con le folle combattenti, dovevano spogliare la sua arte
da ogni decoratività vana, dalle abilità, e da una certa esuberanza
che potè sembrare «barocca», affinché egli potesse accingersi con
l'anima nuda e con forze fresche a quello che vuole essere ormai
tutta la sua ragione di vivere il Monumento al Fante.
La Sala Baroni ne aduna il progetto e alcuni suoi sviluppi
particolari - più qualche opera minore.
E Quello stesso Monumento che già apparve e fu discusso dal pubblico
nel suo primo abbozzo.
Esso ha attraversato molte prove per giungere a questa sua
espressione definitiva
Lo stesso artista affermava di averne dovuto mostrare al pubblico un
embrione e che gli occorrevano anni di meditazione e di lavoro per
svilupparlo.
Però anche il primo bozzetto suscitò consensi entusiastici e non
meno invidiabili contrasti e indimenticate polemiche, che per un
artista, sono il segno sicuro della vitalità della sua opera.
Scrisse Leonardo Bistolfi che quest'opera «è la sola degna
dell'amore per cui è nata».
E se è vero - come disse Ugo Ojetti - che gli stranieri sono un po'
il giudizio dei posteri ecco come ne giudicò il grande pittore
inglese Frank Brangwyn: «Se l'opera sarà compiuta sarà uno dei più
degni e nobili monumenti del mondo e di tutte le età».
Oggi tuttavia il progetto giunto alla sua espressione perfetta deve
molto anche ai suoi stessi oppositori che hanno obbligato il Baroni a
una lunga e silenziosa comunione con la sua opera.
Gli fu utile allontanarsi dai ricordi troppo immediati e perciò
crudi della guerra. L'arte ha bisogno di lontananze.
Realtà e sogno si sono fusi ormai in questo monumento della nostra
ultima epopea, come nel ricordo di ogni combattente, e pare che
l'autore vi abbia toccato il segno del suo maschio, taciturno eroismo
di soldato e di artista.
L'originalità dell'opera sta nella semplicità del mezzi con cui la
folla, perché il monumento è destinato alle folle dei pellegrini
dei luoghi santi della guerra - è condotta a riviverla tutta nella
sua austerità e religiosità.
Qui lo stile non consente nè imitazioni, nè declamazioni, perché
nasce dalla necessità e dalla natura stessa del luogo, uno dei colli
gloriosamente contesi del Carso.
La trincea e il camminamento, stilizzati e resi monumentali,
affiorando dalla terra dei vivi e dei morti, formano intersecandosi
senza artifizio, il segno dell'augusta religione dei padri.
A questa architettura essenziale, tratta dalle costruzioni militari
che il Fante ha glorificato, corrisponde l'ispirazione dei gruppi
bronzei che vogliono rammentare lungo l'ascesa, di stazione in
stazione, i caratteri più nostri, più veramente umani e italiani
del Soldato che sale per il camminamento verso la vetta e verso la
Vittoria.
Queste statue nulla più hanno di accidentale, ma sembrano quasi
espressioni di forze primitive, tanto elementari ne sono i caratteri.
Siamo di fronte agli stessi eroi dello Scoglio di Quarto; ma
contemplati nella realtà, essi si sono precisati e ingigantiti.
Ogni figura è stata rivissuta con la passione dei ricordi fino agli
umili indumenti, fino alle scarpe che da buon «scarpone» il Baroni
sa che fan parte del solido profilo di un combattente e fino alla
mantellina che dà al partente nell'Appello una solennità
classica e diventa quasi ala nell'ultimo assalto.
Nessun dettaglio è parso indegno dell'arte e dell'amore in questo
poema del Fante.
Poema che si apre con la benedizione della madre; che ha accenti di
santità, di violenza e di amore, specialmente nel gruppo dei
Mutilati, in cui è tutta la guerra, ma che ha il suo centro
corrusco nella Vittoria della vetta.
E la vittoria veramente è già nella fede semplice e immobile di
quell'umile donna con le mani levate, nel gesto ieratico della
genitrice che rappresenta la terra, la casa, la patria, e che spinge
su tutto il dramma fino alla trasfigurazione dell'Italia vittoriosa.
Sopra blocchi di blindamento essa ci appare trasumanata quasi in un
arcangelo partecipe nell'ira trionfante a un ultimo assalto,
sollevata in un gesto di furia eroica per gettare l'ultima pietra dal
monte conteso, contro il nemico.
Intorno a lei sono gli stessi fanti che ci hanno accompagnato su per
il Calvario, ma trasfigurati anch'essi dalla passione che dà loro i
caratteri della bellezza e della immortalità degli eroi.
Come nel monumento dei Mille anche qui i morti risorgono per
combattere ancora, ma gli imprecisi limiti tra la vita e la morte
sono in quest'opera finale più indefiniti e insieme più vera.
Mentre ai due lati, nel gradino più basso, giacciono due gruppi di
combattenti caduti, in uno dei quali è espressa mirabilmente la
fraternità d'armi e la cessazione dello sforzo, la massa centrale
della fanteria, lanciata all'assalto diventa quasi irreale a mano a
mano che si avvicina alla Vittoria e sembra alzarsi con essa,
svuotata di carne, dalla terra verso la luce.
Tutti i caratteri dell'arte del Baroni e tutte le sue promesse per il
domani sono in questo progetto di un'opera che sarà la più alta
esaltazione dell'Esercito combattente.
E ben fece il Capo del Governo ad acquistare il bozzetto perché
fosse posto in Palazzo Venezia.
Noi però lo dobbiamo pensare non in gesso, ma in pietra ed in
bronzo, nelle proporzioni in cui il suo autore lo ideò, sopra una
grigia altura del Carso, con la sua ultima stazione
ammonitrice - la Vedetta - rivolta verso l'Adriatico in vista, con la
Vittoria profilata contro le bianche nuvole d'oriente, tra i due
silenzi infiniti del cielo e dei morti, allineati in «ordine
chiuso».
TOMMASO GALLARATI SCOTTI